sabato 5 gennaio 2008

Natale e Capodanno in cella a Gibuti per il missionario trentino don Sandro De Pretis

di Barbara Marino/ 05/01/2008

Don Ivan Maffeis si è recato a Gibuti per visitare il sacerdote, la cui situazione si aggrava: "Sono caduto in trappola. Difficile difendersi da accuse inesistenti. Ho poche possibilità di avere giustizia". Il caso si è complicato ulteriormente.

Si è svolta nella mattinata del 29 dicembre, nel tribunale di Gibuti, l'udienza per don Sandro De Pretis, 52 anni, sacerdote trentino in carcere a Gibuti, piccolo paese del Corno d’Africa, dal 28 ottobre scorso. "Scosso e amareggiato, con la netta impressione che il giudice voglia arrivare presto a una condanna per pedopornografia". Così mons. Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti, ha descritto l'umore di don Sandro De Pretis all'uscita di una seduta lunga, alla quale il missionario trentino si è presentato provato, dopo due mesi e un giorno di detenzione in isolamento. "L'udienza era fissata per le 9 ed era a porte chiuse - spiega il vescovo -. Io sono arrivato a Palazzo di Giustizia di Gibuti intorno alle 10 e ho pazientato quasi un'ora prima che don Sandro uscisse. Sono rimasto con lui e l'ho riaccompagnato in carcere: mi ha raccontato che il giudice ha voluto prendere in esame diverse foto di quelle contenute nel suo computer e sulle quali basano le accuse, non ancora formalizzate, di pedopornografia".

Ora per il religioso trentino l'accusa è di "incitamento alla depravazione e alla corruzione di minori" e, dopo il recente interrogatorio, alle tre foto con bambini che gli erano state inizialmente contestate e che avevano fatto partire l'inchiesta per pedofilia, se ne sono aggiunte altre 15. "Mio fratello durante l'interrogatorio ha continuato a ripetere - ha spiegato il fratello Guido - che quelle nuove foto che gli sono state mostrato dal giudice non le aveva mai viste prima. Ora, tramite l'avvocato, vorremmo capire da dove sono sbucate, quando sono apparse sul disco fisso, che da mesi la polizia locale sta analizzando".

L'inchiesta, dunque, prosegue secondo il filone iniziale, che mons. Bertin ha sempre definito "pretestuoso e assurdo". Con ogni probabilità, il missionario trentino è il capro espiatorio di una vecchia vicenda, che ha coinvolto la Caritas e una Ong locale sfrattata dalla stessa Caritas in maggio, poco prima che iniziassero a circolare strane "voci" su don Sandro. "L'inchiesta dovrebbe volgere al termine - ha proseguito il vescovo di Gibuti - ma l'impressione di don Sandro è che il giudice voglia arrivare a una condanna. La posizione della magistratura, dopo l'intervento della Curia e della Farnesina, si sarebbe addirittura irrigidita. Ma questo potrebbe preludere anche a una via d'uscita: alla condanna non è escluso che segua la grazia o l'espulsione, anche se un accordo chiaro in questo senso tra Italia e Gibuti non è mai stato fatto". La pena inflitta, se don Sandro dovesse essere rinviato a giudizio e affrontare il processo con esito negativo, potrebbe però superare i dieci anni. "Tutto sarà commisurato alla gravità degli atti presentati dal magistrato a chiusura delle indagini - chiarisce monsignor Bertin -. Ma se i capi d'accusa dovessero essere quelli ventilati, il giudice potrebbe avere la mano pesante. Don Sandro era molto scosso e amareggiato, al termine dell'udienza, e nonostante la fede credo sia pessimista. Domani parlerò con l'avvocato".

Il missionario trentino era in attesa, per il giorno seguente, di una visita gradita: "So che è in arrivo don Ivan Maffeis, portavoce dell'arcivescovo di Trento, mons. Luigi Bressan e direttore del settimanale diocesano Vita trentina - confermava mons. Bertin -. Ieri, invece, ho ricevuto una telefonata dal segretario personale dell'arcivescovo di Trento che mi chiedeva informazioni circa i voli aerei: probabilmente la Curia sta pensando di mandare il vicario generale a Gibuti, magari accompagnato dal fratello di don Sandro". "Per quanto mi riguarda ho fatto slittare di qualche giorno la mia partenza per Gibuti - ha chiarito il fratello Guido - dato che attualmente sul posto è presente don Ivan Maffeis e verso il 10 gennaio il vescovo di Gibuti, mons. Giorgio Bertin, dovrebbe incontrare il papa e relazionare sulla situazione di mio fratello. Questo ovviamente se qualcosa non si muoverà prima".

Intanto, don Ivan Maffeis ha potuto incontrare in carcere a Gibuti don Sandro e proprio su questi incontri avuto con don Sandro, don Ivan ha inviato delle E-mail all’arcivescovo di Trento, mons. Bressan, per aggiornarlo. "Mi hanno riferito che mio fratello è provato - racconta Guido De Pretis - e che sta maturando la convinzione che il giudice voglia condannarlo. Mi sembra veramente il processo di Kafka". Sono giorni che la famiglia non sente don Sandro. Nonostante le numerose lettere inviate, al momento, a parte la missiva ricevuta ormai parecchie settimane fa, non hanno ricevuto alcuna risposta. Nei suoi resoconti, don Ivan ha descritto anche le condizioni in cui si trova don Sandro nel carcere: "La cella misura 4 passi per 7. Il materassino posato sul pavimento, portato da fratel Paolo, il segretario del vescovo, è l’unico ‘arredo’. In un angolo, una latrina ed un secchio. Don Sandro inganna il tempo con la lettura di quello che gli capita sotto mano: ‘Ho appena terminato il Purgatorio di Dante, ora sarei contento di passare al Paradiso ... Mi rendo conto - dice il missionario - che da parte della magistratura non c’è la volontà di chiarire. Avverto piuttosto un’ostilità crescente. Se veramente si arrivasse a breve ad un processo, so già che ne uscirò condannato’".

La sera del 3 gennaio don Ivan Maffeis avrebbe dovuto lasciare l'Africa, per rientrare a casa, ma il direttore del settimanale diocesano Vita Trentina è rimasto "bloccato" a Gibuti. Colpa dei controlli cui è stato sottoposto dai secondini del carcere nel quale era andato a trovare don Sandro De Pretis, che si sono protratti talmente tanto, da impedirgli di imbarcarsi. Don Maffeis si era recato a Gibuti per visitare il sacerdote trentino rinchiuso da ormai 65 giorni in carcere, con accuse che il missionario ha sempre respinto: "Mi sento preso in trappola - ha detto - anche se sono consapevole della mia estraneità alle accuse che mi vengono rivolte". Proprio nei racconti che aveva inviati, don Ivan aveva descritto i controlli ferrei del corpo di guardia: "‘Cosa scrivi?’. La domanda resta nell'aria. Il capo delle guardie mi strappa il taccuino e lo sfoglia con sospetto. ‘Che lavoro fai? Sei forse un avvocato? E allora chi sei? Perché tu possa uscire devo prima trovare un gibutino che conosca l'italiano e che sia in grado di tradurmi i tuoi appunti ...". Anche il 3 gennaio, quando don Ivan si era recato nel carcere per un ultima visita a don Sandro, le guardie lo hanno trattenuto per capire cosa avesse scritto. Controlli che si sono protratti moltissimo, creando un comprensibile stato di apprensione nel direttore di Vita Trentina. Alla fine, quando don Maffeis ha potuto lasciare il carcere, era ormai troppo tardi per salire sull'aereo.

Da Diego Andreatta, della redazione di Vita Trentina abbiamo appreso, che don Ivan Maffeis si è spostato da Gibuti in Eritrea, da dove prevedibilmente stasera rientrerà in Italia. Non ci sono al momento ulteriori notizie, se non i due resoconti degli incontri con don Sandro De Pretis nel carcere di Gibuti, da lui inviati e che pubblichiamo integralmente qui di seguito. Probabilmente, il direttore del settimanale diocesano Vita Trentina sarà disponibile lunedì per ulteriori informazioni.

Il testo dei resoconto integrali degli incontri di don Ivan Maffeis con don Sandro De Pretis in carcere a Gibuti

Gibuti, 1 gennaio (di Ivan Maffeis) - L’ufficiale è un altro rispetto a ieri. Si rigira tra le mani il passaporto e il permesso del Tribunale, che "autorizza il portatore a comunicare, sotto la sorveglianza di una guardia, con De Pretis Sandro, incolpato di incitamento alla depravazione e alla corruzione di minori". Fa quindi cenno di attendere, mentre manda un poliziotto a chiamare il detenuto. Il carcere, l’unico del Paese, ne contiene circa 500.
L’attesa è breve. Don Sandro arriva con un volto più disteso, anche se saluta dicendo: "Questa notte non ho dormito, troppi pensieri per la testa". Nel nostro colloquio di ieri quei pensieri avevano rivestito la forma dell’interrogatorio al quale il missionario trentino è stato sottoposto sabato 29 dicembre, quando il giudice che segue l’istruttoria l’ha strapazzato senza mezze misure.
Ci sediamo ai piedi di un albero, osservati dalle 6 guardie che stazionano all’ingresso. Una di loro è una donna, velata dalla testa ai piedi: soltanto gli occhi seguono i nostri movimenti e le nostre parole.
"Ho fatto colazione con le due mele ed il pezzo di zelten", dice sorridendo per ringraziare del segno portato dal Trentino. Veste una maglietta bianca ed un paio di calzoncini corti. Sono le 11 del mattino, la giornata è calda, ma all’ombra sopportabile. Nulla comunque rispetto alle temperature estive, con il termometro che raggiunge i 46 gradi.
"È soprattutto la sera che mi pesa - dice - quando per evitare di essere divorato dalle zanzare, sono costretto a non accendere la luce. In questo modo, la notte mi sembra lunga, troppo lunga ...".
La cella misura 4 passi per 7. Il materassino posato sul pavimento, portato da fratel Paolo, il segretario del vescovo, è l’unico "arredo". In un angolo, una latrina ed un secchio. "Lo riempio d’acqua con una piccola scatola - spiega - e in questo modo ho poi la possibilità di lavarmi ...".
La giornata inizia all’alba: "Alle 5, con l’arrivo della prima luce, mi alzo per la preghiera, che poi scandisce anche altri momenti del mattino e del pomeriggio. Non che fosse così anche prima: tra queste mura ho trovato un ritmo più intenso anche per la vita spirituale".
Inganna il tempo con la lettura di quello che gli capita sotto mano: "Ho appena terminato il Purgatorio di Dante, ora sarei contento di passare al Paradiso ...". Gli offro un paio di libri di Ryszard Kapuscinski, li prende volentieri: "Mi piace il modo di viaggiare di questo giornalista polacco - commenta - mi piace soprattutto il suo modo di stare tra la gente e di incontrare una cultura diversa dalla sua".
Le pagine di Kapuscinski ci offrono lo spunto per passare a parlare della sua missione in questo angolo del Corno d’Africa, dove don Sandro vive dal 1993. Seguendo il filo delle domande, mi racconta di Ali Sabieh, la parrocchia che ha assunto un paio d’anni fa, a 90 chilometri da Gibuti, sul confine con l’Etiopia. Vi ho dormito questa notte per vederla con i miei occhi.
I mesi di detenzione non hanno spento la passione dell’uomo che cerca Dio sui sentieri dei poveri. Il suo racconto ci porta nella cittadina di 15 mila abitanti e spazia poi fra tende di pastori nomadi. La popolazione è tutta musulmana, se si eccettua una famiglia congolese e due volontarie francesi. Il padre è cercato soprattutto per esigenze materiali: vuoi un capo di vestiario, vuoi degli aiuti alimentari o sanitari. Accanto alla chiesetta e alla povera abitazione di don Sandro, le scuole, che affiancano alla classi delle Elementari quelle per l’alfabetizzazione dei giovani: "Moltissimi di loro non sanno nè leggere nè scrivere - spiega il missionario - non hanno mai posto piede in un’aula scolastica in quanto per lo Stato semplicemente non esistono: quando sono nati i genitori non avevano quei duemila franchi (circa 12 dollari) necessari per registrarli all’anagrafe, quindi rischiano di rimanere per tutta la vita degli apolidi ...".
Arriva la suora della Consolata con i viveri per il pranzo. È il primo giorno dell’anno, c’è aria di festa. Il responsabile della guarnigione permette che lo condividiamo insieme. "È una novità non da poco - osserva don Sandro - se pensi che per il primo mese e mezzo mi hanno lasciato uscire dalla cella solo per i brevi minuti delle visite ...".
Riusciamo anche a scherzare, prima che il discorso ricada dove il dente duole: "Mi rendo conto - dice - che da parte della Magistratura non c’è la volontà di chiarire. Avverto piuttosto un’ostilità crescente. Se veramente si arrivasse a breve ad un processo, so già che ne uscirò condannato".
"Questa mia situazione è stata preparata per tempo e con cura - aggiunge - e anche se sono consapevole della mia innocenza e quindi che ‘loro’ non possono avere in mano alcuna prova, sento tutto il peso delle accuse che mi rivolgono e provo la fatica di dovermene difendere".
L’ultima speranza del missionario trentino è in un intervento di ‘peso’, ossia della stessa Presidenza del Consiglio italiano: "Finora il nostro Paese si è mosso con discrezione, anche se qualche passo significativo l’ha fatto, soprattutto grazie all’impegno del console; è stato anche bloccata la firma al finanziamento da parte della nostra Cooperazione internazionale di un ospedale qui a Gibuti, un’opera che attende ormai da una decina d’anni ... Ma, vista l’ostinazione con la quale mi stanno trattando, se non si muoveranno a livello di vertici, avrò ben poche possibilità di vedermi fatta giustizia".
Sono quasi le 14. La guardia ci fa notare in modo un po’ spazientito che stiamo esagerando. Resta il tempo per un’ultima confidenza, un abbraccio, un arrivederci a domani.

Gibuti, 2 gennaio 2008 (di Ivan Maffeis) - "Stai attento, quello di quest'oggi è il corpo di guardia più duro, quello che mi nega sistematicamente anche la possibilità di fare due passi sul corridoio davanti alla cella". Don Sandro De Pretis, il missionario trentino che vive a Gibuti dal 1993, è al suo 65° giorno di carcere. Siamo da pochi minuti seduti ai piedi di un albero, come nella migliore tradizione africana; ma non c'è accoglienza né cordialità a circondare il nostro incontro. Attorno, invece, abbiamo cinque militari, tra i quali il responsabile della guarnigione. Parliamo fra noi il più possibile con naturalezza, cercando un'impossibile estraneazione dal contesto. Alzando gli occhi, dal pertugio aperto nel muri di cinta, i familiari dei detenuti passano un po' di viveri alla guardia, perché li faccia arrivare ai loro cari. Di mano in mano, i pacchetti arrivano ai nostri controllori, che li aprono, li palpano, li ammucchiano in disparte. "Cosa scrivi?". La domanda resta nell'aria. Il capo delle guardie mi strappa il taccuino e lo sfoglia con sospetto. "Che lavoro fai? Sei forse un avvocato? E allora chi sei?". Mi guardo dal rispondere, tanto è evidente che non gli interessa. "Perché tu possa uscire - dice, indicando il portone di ferro - devo prima trovare un gibutino che conosca l'italiano e che sia in grado di tradurmi i tuoi appunti ...". Nell'aria risuona la voce gracchiante del muezzin, che invita alla preghiera. I militari giocano con la pistola, in una dimostrazione di forza che ti fa sentire niente. Vista da qui anche la tragedia che sta insanguinando il Kenya ha un sapore diverso. Quando la vita vale poco, forse meno ancora, arrivi a relativizzare anche quelle centinaia di vittime, i cui nomi - alla pari di tanti di qui - non figurano sul registro di alcuna anagrafe. "La situazione che vivo - spiega don Sandro - mi fa riflettere su quanto sia fragile la vita. Normalmente ci si arriva soltanto quando ti capita addosso una malattia improvvisa o di fronte ad un forte scoraggiamento, per un lavoro che si perde o che non si trova. Per me, invece, questa fragilità si traduce in un periodo del tutto inaspettato, dominato dalle menzogne che mi sono state rovesciate addosso e da un'ingiustizia voluta, cercata e pianificata con accanimento". I soldati ridono, parlano a voce alta, fanno correre di qua e di là per piccoli servizi due giovani detenuti. "Mi sento preso in trappola - continua il missionario - anche se sono consapevole della mia estraneità alle accuse che mi vengono rivolte: sarei un pedofilo, uno che ha abusato di minori ... A distanza di quasi tre mesi, ora sono riusciti a far saltar fuori addirittura due testimoni, pronti a puntare il dito contro di me". Il carceriere si rialza e ci si para davanti, questa volta con una tanica: "Oggi in prigione non abbiamo acqua - dice - se volete che il vostro amico si lavi, portategliela dentro questa sera". Per fortuna don Sandro è assistito quotidianamente dalla premura delle suore francescane e da quelle della Consolata, che si alternano nelle visite e non hanno timore a sostenere lo sguardo delle guardie. Ma che ne sarà di tutti gli altri, di quei 500 detenuti che sono dietro le sbarre alle nostre spalle? "Mi tiene in piedi l'affetto di tanti amici trentini - prosegue don Sandro - che so essermi vicini con il loro ricordo e la loro preghiera; mi conforta sapere che anche il mio vescovo crede alla mia innocenza ...". Riesce a scherzare, dicendo che in fondo la sua presenza nella missione di Ali Sabieh, dove vive da un paio d'anni, non è poi molto diversa: "Se penso alle ‘soddisfazioni pastorali’ che ho raccolto in quella cittadina di 15 mila abitanti, dove i cristiani si riducono ad una famiglia di immigrati e alle due volontarie francesi che gestiscono la nostra scuola ...". In carcere, però, oltre alla libertà personale, mancano anche le occasioni di contatto, quelle che hanno fatto del ‘padre’ un punto di riferimento per molti. Soprattutto per i poveri. "So che il governo italiano e anche il Vaticano si stanno dando da fare - dice ancora don Sandro - e spero proprio riescano ad intervenire in maniera risolutiva prima che si al processo, che mi vedrebbe quasi certamente condannato. La storia nella quale sono stato incastrato è veramente dura e lascia sempre più intuire interessi potenti in gioco". L'ultimo pensiero manifesta una volta di più lo spessore interiore dell'uomo: "Più che la prigione - conclude don Sandro - mi pesa sapere di essere perseguitato senza aver fatto nulla di male. Spero che anche questa prova in un modo o nell'altro contribuisca a rafforzare la presenza della comunità cristiana, che è disposta a soffrire per amore di questo Paese, di questa gente".

Ringraziamo per la gentile collaborazione nel fornire le ultime notizie sul caso di don Sandro De Pretis, i giornali locali Corriere dell'Alto Adige, L’Adige, Il Trentino e in special modo Vita Trentina.

Fonte Korazym.org

Nessun commento:

Sitemeter